UNO SGUARDO DAL BANCO

FEDERICA SILIPO • feb 06, 2023

 

VOLO PINDARICO NELLA TESTA DI UNO STUDENTE

 

Una sera ero a letto, riflettevo, sbadigliavo. Cercavo di rilassarmi lasciando andare i pensieri della giornata, più o meno belli. Nonostante la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno. I ricordi datati rimbalzavano nella mente e si scontravano con quelli più recenti. Pensavo alle difficoltà del crescere, le mie, quelle di mio figlio, quelle di tanti, di tutti noi. E mi sono ritrovata a volare nella testa di uno studente. Un volo pindarico spontaneo, che ha preso forma di getto, senza che lo cercassi.

Ecco quello che ho trovato.

  ¶

Eccomi qua, un’altra ora con questo che mi guarda come se provenissi da un altro pianeta. 

Sarà forse per il piercing, per il tatuaggio, per lo sguardo solare e la voglia di vivere, per la faccia da bravo ragazzo che ho e che lo fa così arrabbiare, forse gli ricordo se stesso quando era dalla mia parte e soffriva quegli sguardi penetranti di chi ti osserva dall’alto in basso. 


Ora mette in atto la vendetta, la sua voglia di riscatto, con quel gusto sadico di avere lui il coltello dalla parte del manico.

Mi odia, credo proprio di sì. Non ne faccio bene una, mi critica, mi guarda e sono sicuro che pensa che dentro alla testa abbia solo acqua. Oppure pensa che sono talmente intelligente da fargli paura, ricordandogli le sue debolezze, quello che non sa o quello che fa finta di sapere, tutta la sua conoscenza che non è così granitica da permettergli di superare il muro che ci tiene a distanza. Perché se lo fosse, non avrebbe problemi a oltrepassare quella barriera, con un piccolo balzo.


Anche oggi mi chiederà a denti stretti che cosa ho fatto, perché ho sbadigliato durante la lezione, perché sembro tanto presente e partecipe da fargli sospettare che io stia solo fingendo e pensando a tutt’altro. 

Sono forse troppo bravo? O troppo asino. Non gli vado bene così come sono, neanche ci prova a vedere come sono.

Sta lì, mi fissa e cerca di pescarmi in fallo, quasi per avvalorare la sua tesi che sono un imbecille o semplicemente uno sfaticato, o per rassicurarsi che non sono un genio a cui non serve troppo sforzo per imparare. 

Ma io questa soddisfazione non gliela do. Lo guardo dritto negli occhi quasi a scrutare quel bambino timido, sofferente, silenzioso che guardava da questo banco il suo torturatore, un uomo che lo faceva sentire così infelice, così inadeguato. 


È la sua vendetta? È la sua inconscia ribellione a quello che è stato e che proprio non doveva essere? Un anonimo che non contava nulla nella sua classe, uno che non aveva titolo, non aveva considerazione. È questo che pensa di se stesso? O è questo che pensa di me?

Io non so da dove scaturisca questo feroce accanimento nei miei confronti. A volte mi chiedo se ci sia dell’umanità in questa persona, se abbia consapevolezza del suo ruolo così determinante per la mia crescita, per la mia serenità futura; per i miei ricordi di quando avrò quarant’anni e coltiverò con dolcezza o che rifiuterò di rivivere nella mia mente per il troppo dolore che mi provocano. E sui quali dovrò lavorare per lasciare andare e guarire.


Non credo sia io il problema, in fondo il dilemma è dentro di lui, dentro ognuno di noi. Ma la proiezione delle nostre visioni limitate interiori sugli altri, purtroppo, è un male che affligge tutti, e non solo da dietro questo banco o dalla sua cattedra, tanto più alta del mio posto, dei nostri. 


Come ha fatto la vita a farlo sentire così inadeguato. Alla sua età non dovrebbe essere una persona risolta?

Perché se la prende con me, con i miei compagni! Non sa che i numeri fanno male? Ma ciò che fa male è soprattutto il peso che gli dà, un peso ingiustificato, esagerato, assurdo. Sembrano essere l’unico obiettivo da perseguire qui dentro. 

Se quei numeri sono alti, lo vedi che soffre perché è costretto a darmeli. Quel numero alto mi dà gioia, ma il voto lui non me lo dà con gioia, e questo non mi piace. Mai una volta che mi restituisse un compito con un sorriso! Così la mia felicità è menomata perché mi domando il motivo per cui dovrei gioire dell’insoddisfazione di qualcun altro. 


Perché non riconosce la mia bravura, la mia dedizione, il mio senso di responsabilità nei confronti del mio futuro e di questa istituzione che chiamiamo scuola? Perché non ammette che i miei genitori mi hanno educato perbene, che sono una brava persona, un ragazzo in gamba, che ho buoni sentimenti. Perché si accanisce contro lo spauracchio di se stesso, si trincera dietro ai suoi problemi e giustifica ai suoi occhi tale comportamento con le sue insoddisfazioni quotidiane? 

Non sta a lui risolvere i suoi problemi? Io ho i miei, anche se ho pochi anni ce li ho i problemi, e uno di questi è lui.

Quindi perché scaricarseli uno addosso all’altro. Ognuno si risolvesse i propri. 


Da questo banco mi sembri così triste, che quasi provo compassione per te. Il “TU” te lo do nel mio cuore anche se poi non posso verbalizzarlo. Professore mi fai pena, ma non lo dico con ironia, lo affermo con comprensione e perché mi mette tanta tristezza pensare che alla tua età, un giorno, anch’io potrei essere così, anche se non sarò dietro a una cattedra. 


Dedico il mio “sguardo da questo banco” a tutti coloro che non si sono lasciati crescere, evolversi e che dovrebbero essere ancora dalla nostra parte, tornare a scuola. Sia perché hanno tuttora molto da imparare, sia perché in questo modo avrebbero una visione chiara di quello che noi sentiamo adesso, un ricordo più profondo di ciò che erano e che hanno vissuto.


Dedicato anche a coloro che invece ci fanno sentire esseri umani, considerati come quasi adulti degni di nota, coloro che quel fuoco interiore ce lo trasferiscono in piccole scintille ogni giorno, per tutti gli anni in cui rimaniamo seduti a questo banco.

Grazie a tutti, grazie ai risolti e ai non risolti perché, comunque sia, entrambi ci insegnate qualcosa. Entrambi ci spronate a evolverci.

Sono fuori dalla testa ora, o fuori di testa, scegliete voi. :-) Al prossimo volo. 



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