TUTTI I "NO" CHE NON HO DETTO

FEDERICA SILIPO • feb 06, 2023

 

 

 

MI RIAPPROPRIO DEL "Sì" E TORNO A VIVERE

 

 


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Deludere qualcuno è sempre stato il mio incubo peggiore.

Ho sempre avuto grande difficoltà a non accontentare gli altri. Forse per avvertire quella sensazione così soddisfacente di ricevere apprezzamento per la mia disponibilità, per il mio apporto, per sentirmi dire che sono gentile o probabilmente per timore delle critiche, di essere contestata, giudicata, contraddetta.

Risultare meno brava o non all’altezza delle situazioni mi ha sempre infastidito. Non soddisfare le aspettative altrui mi ha sempre creato disagio e un senso di inquietudine a cui dover porre rimedio, oltre che profondi sensi di colpa.


Il ruolo della brava bambina prima e dell’adulta responsabile poi mi ha sempre calzato a pennello.

Per una questione di ego? Forse. Mostrare il meglio di sé è un obiettivo comune, e manifestare comprensione e apertura per il prossimo denota una grande empatia, che può essere motivo di vanto. Questo è molto “egologico”, se vogliamo sintetizzare con una parola esagerata la “logica dell’Ego”.

La ricca soddisfazione di ricevere un “brava” o “come sei gentile e disponibile” fino a “sei un angelo”, non ha davvero paragoni. E ho vissuto di queste gioie per anni.


Dare così tanto valore agli altri, alcuni obiettano, denota poca autostima, una percezione di scarso valore di sé stessi. Può darsi.

Istintivamente ho voluto sempre accontentare, assecondare, aiutare. Era qualcosa davvero più forte di me, dalla quale non potevo fuggire, dalla quale non volevo fuggire. Era così giusto, normale, necessario.

Osservare poi l’impatto del mio sostegno sulle vite di genitori, familiari, in particolar modo, ma anche amici, conoscenti persino sconosciuti, persone e animali, mi ha sempre dato grande appagamento. Un senso di amore e generosità crescevano in me a ogni “sì” e alimentavano quella voglia di dare che mi ha contraddistinto sempre.


A ogni sì che dicevo, diminuiva l’interrogativo della domanda. Più sì, meno dubbi per chi esprimeva la sua esigenza di aiuto; ancora più si, e i dubbi su una risposta affermativa da parte mia scemavano completamente nel tono della voce dell’interlocutore, fino a diventare parole che ormai componevano un’affermazione. Il sì era diventato implicito, un tutt’uno con la domanda, retorica. Fino ad arrivare a non dover nemmeno rispondere. Da me ci si aspettava un sì, era automatico, scontato, innegabile.


Per quanto avessi potuto avere le mie esigenze, che avrebbero dovuto, in alcuni casi, prevalere sulle richieste degli altri, la scelta ricadeva, la maggior parte delle volte, sull’accontentare il richiedente. Anche contro i miei interessi, anche se dovevo sacrificarmi per aiutare, anche se quel sì strideva dentro di me come carta vetrata sul ferro.

Mi ha sempre fatto male leggere la delusione sul viso degli altri e, per non avvertire quella sofferenza, assecondavo le richieste. Spesso non erano nemmeno richieste: agivo prima che mi venisse domandato, che si creasse quel dubbio su chi potesse intervenire in una determinata situazione.


Il mio voler essere brava a ogni costo, sempre “egologicamente” parlando, determinava il mio comportamento? In parte sì, non lo nego. Ma qualcosa di più profondo mi ha sempre spinta.

Non sono mai riuscita a rimanere indifferente alla sofferenza. Questo lo considero un gran dono. La compassione, l’empatia sono caratteristiche che mi riconosco e di cui sono fiera. Sono grata di essere così. Non potrei essere diversa. E non voglio nemmeno essere presuntuosa. Parecchie persone sono molto più generose di me, trovano mezzi migliori per esprimere queste doti e lo fanno in maniera più efficace. E meno autodistruttiva.


Qui sorge uno dei più grandi interrogativi della mia vita e, immagino, della vita di molti: dov’è quel punto del giusto equilibrio tra l’aiutare gli altri e il preservare se stessi? Laddove equilibrio significa che il prossimo riceve aiuto e il donatore non penalizza pesantemente la sua vita nel darlo.

Sono stata sempre un asino in questo. Mi sono sempre buttata a capofitto nelle situazioni difficili per i miei familiari, persone che avevano necessità di salute e non solo. Facendomi male ogni volta perché prendevo una rincorsa troppo breve e atterravo di frequente su terreni scogliosi.


Era l’ego a guidarmi o la parte migliore di me che non riesce a rimanere indifferente di fronte a un’opportunità di aiuto?  Bocciata anche in questo, per tutta la vita. Non ho mai saputo delineare una netta distinzione tra ciò che mi obbligava e ciò che amorevolmente mi spronava. Quel che è peggio è che nemmeno mi rendevo conto di questa differenza.

Dovevo intervenire a tutti i costi e non riuscivo a capire chi rimaneva immobile di fronte alla sofferenza o a una richiesta di aiuto, palesata o meno che fosse.


Considero un dono leggere le esigenze delle persone, e mi dà grande gioia soddisfarle, soprattutto in contesti di grandi difficoltà e sofferenze. Purtroppo, a volte, non c’è nemmeno tanto da leggere, sono talmente evidenti che non ho mai compreso come si possa voltare le spalle di fronte a tali afflizioni.


Anni fa sono venuta a conoscenza di un’espressione inglese: “People pleasers”. Cioè coloro che accontentano gli altri, che non ne possono fare a meno. Le motivazioni possono essere diverse per ognuno, ma tendenzialmente sono simili: impossibilità di dire “no” perché altrimenti ci si sente cattivi o in colpa, esigenza di non sentirsi egoisti dando priorità a sé stessi piuttosto che agli altri, necessità di fare sempre la cosa giusta.

In questa definizione mi ci sono riconosciuta in più occasioni e costituisce una sorta di trappola. Vedersi costretti ad aiutare perché altrimenti si sente dolore, non è mai qualcosa di sano. Mi sono avvelenata per anni con scelte che hanno sostenuto il prossimo, ma che ogni volta consumavano un po’ di me. Questa credo sia la peggiore delle vie nel sostegno al prossimo.


È la via che ho praticato anche io, nella quale mi sono impantanata. Non sempre, ma nemmeno di rado.

Ho detto sì quando avrei voluto dire no, senza sentire quel dolore che il rifiuto, raro, provocava in me e anche in qualcun altro. Ho sempre avuto la presunzione che le cose sarebbero andate male se non fossi intervenuta, che nessuno lo avrebbe fatto al posto mio. È quello che vedevo, che osservavo intorno a me. Forse non ho lasciato agli altri la possibilità di esprimersi, di tirar fuori quel senso sopito di compassione, probabilmente perché ero sempre in mezzo. Ho voluto fare tutto da sola da quando ero piccola. Solo io sapevo come aiutare, solo io capivo come intervenire, solo io mi muovevo.


Non ho lasciato spazio a chi magari sarebbe voluto intervenire a proprio modo, arrogandomi il ruolo di leader nella gestione delle situazioni di emergenza, condannando allo stesso tempo gli altri perché me lo lasciavano fare, a ogni età. La compassione era tutta mia, l’apporto esclusivo, il giudizio feroce.


Mi nascondevo dietro l’immagine di vittima, quando il mio ego si crogiolava mentre mi lanciavo in un nuovo caso umano. Chi altri sarebbe potuto intervenire se non io? Io, io. L’ego cresceva a dismisura, nascondendosi dietro una totale e disarmante generosità. Si pavoneggiava di fronte al sacrificarmi, al rinunciare a me stessa e alle mie esigenze negate che scavavano silenziosamente un vuoto, diventando, di giorno in giorno, una voragine.

Una voragine scavata da tutti quei “no” che non ho detto.

Sono la definizione più azzeccata del “people pleaser”, ne sono l’incarnazione.


Ora basta. Al mio ego non permetto più di definirmi, sminuendo la mia vera natura, celandola. Perché se si fosse fatto da parte in più circostanze, sarebbe emersa quella ragazzina dolce e generosa, pronta a sacrificarsi per il bene degli altri, con amore e compassione.

Lei avrebbe persino imparato a dire “no” quando, pur soffrendo per la malattia di un familiare, avrebbe scelto di partecipare al dramma solo in parte, non sempre da protagonista, con quel giusto e sano equilibrio che avrebbe lasciato spazio al coinvolgimento di altri attori, a chi avrebbe voluto collaborare, ma non sapeva come entrare in scena.


Avrebbe permesso di aprire il sipario su chi poteva maturare una coscienza dell’aiuto, partecipando agli eventi drammatici, non sgombrando sempre le vie di fuga ai coprotagonisti. E avrebbe partorito una donna che non si sarebbe identificata in una definizione inglese ascoltata molti anni dopo. Una donna che avrebbe saputo dire di “si” con un tempo perfetto, espandendosi al sussurro gentile della sua anima che la pregava di intervenire, piuttosto che contrarsi al grido dell’ego che le ordinava di immolarsi per ogni causa.


La donna che non sono diventata, ora si porta dentro quella voragine, a cui deve porre rimedio, per tutti i no che non ha detto.

Non mi è mai mancata compassione, empatia e generosità, è ciò che sono. E aiutare il prossimo è ciò che intendo continuare a fare, ma ora le modalità cambiano. Devono cambiare. Qual è il giusto equilibrio? L’unica risposta onesta che posso dare è che ancora lo sto cercando. Ancora mi chiedo, ogni volta, che cosa voglio veramente e rimbalzo tra il no e il sì con un fare quasi folle.


Amo vedere la gioia negli occhi delle persone, anche solo per un piccolo gesto di gentilezza ricevuto, la cerco quella gioia e so che agisce in accordo con la mia verità. Quando però sento stridere in me un sì uscito a stento, so che mi sto facendo del male, ancora una volta, e il bene elargito con tanta sofferenza porta un beneficio menomato.  


Scelgo quindi di osservarmi e sentire, di fronte a richieste di aiuto, sostegno, favori in genere. Mi osservo e rimango in attesa che si manifesti quella scintilla che mi nutre in ogni momento dell’atto di generosità. Perché la persona con la quale sono stata meno generosa in tutta la mia vita, sono proprio io.

Ora inizio a dire “si” anche a me stessa e la voragine di tutti i “no” che non ho detto, prima o poi, risulterà un po’ meno profonda. 


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